Rispetta l’ambiente ,sostituisci la plastica con: Apepak,imballaggio alla cera d’api.

La produzione di Apepak si svolge interamente in Italia e, in particolare, in provincia di Treviso ad opera della cooperativa sociale Sonda.
Trovare una o più alternative alla plastica è un’esigenza che nasce anche dalla complessità e dalle tempistiche necessarie per poterla smaltire. Ad esempio, per poter una bottiglietta di plastica sono necessari fino a 1000 anni.L’esigenza di virare verso una spesa e una vita “plastic free” è stata recepita anche dalla Commissione Europea che, negli ultimi anni, ha dedicato sempre maggiori sforzi a una riduzione della produzione e dell’uso di plastica in tutta l’Unione. Una delle prime direttive, accolta non senza polemiche, ha reso obbligatori i sacchetti biodegradabili per la frutta e la verdura in tutti i supermercati.

Un’alternativa è quella realizzata da Massimo Massarotto, nata da una sua personale attenzione al problema dell’inquinamento ambientale. “Io e mia moglie viviamo da 3 anni in California, dove esiste una sensibilità specifica ai temi dell’ecologia, e siamo sempre stati ambientalisti.

Massimo e Molly hanno dato vita al progetto Apepak, che ha visto lo sviluppo e la produzione di un involucro strutturato specificatamente per gli alimenti e perfettamente riutilizzabile e biodegradabile. “L’idea della pezza – ci spiega Massarotto – è nata da mia moglie. Lei già utilizzava un prodotto simile di fattura americana e, in maniera molto naive, ha avuto l’idea di produrne qualcuna in casa a Natale di un anno e mezzo fa da mandare alla famiglia in Italia come regalo.” L’obiettivo era, semplicemente, sensibilizzare amici e parenti a una pratica ecologica, ma il panno si è rivelato non solo gradito e utile. “Sono stati proprio loro a proporci di introdurre questo prodotto in Italia dove non esisteva. Why not? Abbiamo lavorato un anno per creare la struttura di produzione e di vendita, finché non abbiamo lanciato effettivamente il brand lo scorso luglio”.
Per poter realizzare un prodotto 100% sostenibile, sia dal punto di vista ambientale che umano, è stato necessario selezionare con attenzione i materiali e gli “ingredienti” da utilizzare :

cera d’api
resina di pino
olio di jojoba.

“Scegliere la cera d’api – spiega il fondatore di Apepak – è stato naturale. La cera d’api è un prodotto miracoloso: antisettica di per sé, non va mai a male, è già certificata per il contatto con il cibo e ha delle proprietà che si sposano con l’organicità del prodotto. Grazie al calore delle mani, infatti, si attiva, per cui quando usi Apepak per avvolgere un panino oppure un frutto, fai un risvolto e si sigilla.”

Lo scopo della resina di pino, invece, è quello di fissare la cera d’api, “naturalmente bisogna stare attenti quando si lava la pezza, sempre in acqua fredda.” Infine, c’è l’olio di jojoba che importato dalla Gran Bretagna, ma sempre da fornitori selezionati in base a criteri etici e solidali. “In generale – spiega Massarotto – siamo in costante ricerca per rendere più sostenibile la produzione. La cera d’api, infatti, non è una risorsa infinita e potrebbe portare a dei problemi in futuro, mentre l’olio di jojoba non è a km zero e ci piacerebbe trovare un’alternativa per abbattere l’impatto ambientale del trasporto. Le domande sono tante per poter mantenere la pratica il più etica possibile”.
È certificato per l’uso sicuro per gli alimenti come, ad esempio, spezie, insalata, pane, frutta, frutta secca. “Lo proponiamo in diverse misure per poter coprire un piatto con gli avanzi del pranzo, oppure per portare uno snack al lavoro o anche per conservare il pane.” È sconsigliato, invece, per la carne cruda oppure per il pesce, che rilasciano succhi che potrebbero danneggiare la pezza e renderla più difficile da lavare.

“Dal nostro punto di vista e secondo la nostra esperienza, consigliamo di utilizzare una pezza differente per ogni tipologia d’uso. Ad esempio, una solo per il pane, una solo per gli avanzi e via dicendo.” Così, ci spiega Massarotto, è possibile conservare l’Apepak il più a lungo possibile, lavandolo in acqua fredda, con un sapone naturale e una spugnetta, anche più di un anno. “Non è necessario farlo a ogni utilizzo, una volta ogni due o tre settimane è sufficiente. A fine vita, si può gettare nell’umido a seconda delle regole comunali: in meno di quattro anni sarà completamente smaltita”

La produzione di Apepak si svolge interamente in Italia e, in particolare, in provincia di Treviso ad opera della cooperativa sociale Sonda. “Riceviamo – spiega il CEO – i rotoli di cotone alti, solitamente, 1,50 m e lunghi circa 200 metri. Vengono posizionati su un tavolo, tagliati a mano grazie a delle forbici zigrinate perché il tessuto non si sfilacci. Le pezze vengono poi posizionate su un’altra postazione, dove c’è una stazione di caratura: qui, manualmente, viene applicata la cera con la resina e l’olio. Una volta asciugate, sono pronte per passare al confezionamento dentro al packaging.”
Sostenibilità sociale, in collaborazione con Sonda, Società Cooperativa Sociale Onlus

Non è un caso che nella produzione sia stata coinvolta una cooperativa che opera sul territorio coinvolgendo persone in situazione di marginalità e svantaggio come, per esempio, soggetti con problematiche di dipendenza e persone con disabilità, la maggior parte giovani che possono così inserirsi in progetti di integrazione sociale.

“Siccome il prodotto è quello che in inglese si dice “no brainer”, ovvero che appena lo capisci non hai dubbi sulla sua efficacia, il successo è quasi assicurato. Ci siamo chiesti allora perché non condividerlo con le persone che hanno più difficoltà. Ho pensato subito a Sonda, perché conoscevo Francesca Amato, vice presidente della cooperativa, e sapevo che lavoravano all’assemblamento e produzione di carta per varie aziende del territorio”. Così è nata la collaborazione per la produzione di Apepak che fosse etica in ogni passaggio della filiera: “ci interessava – aggiunge avere un prodotto che fosse giusto da tutti i punti di vista.”
L’innovazione di Apepak ha attirato l’attenzione anche di alcuni supermercati che, come ci spiega il fondatore, hanno contattato l’azienda per poter creare degli involucri per gli alimenti venduti direttamente con le pezze di cera d’api. In futuro, dunque, Apepak si potrà acquistare nei supermercati, per ora è disponibile sul sito dell’azienda e in alcuni punti vendita specifici in diverse parti d’Italia.Allora affrettiamoci a comprarlo!!!

Intervista di Vinicio Bottacchiari

Testamento sociale.Giuseppe Verdi, lasciò il suo patrimonio ad asili e istituti per ciechi, sordomuti .

In Italia solo l’8% della popolazione affida a un testo scritto le proprie ultime volontà. Ma negli ultimi dieci anni le donazioni post mortem a favore di organizzazioni no profit sono aumentate del 10-15%. Oggetto del lascito può essere una somma di denaro ma anche un’opera d’arte, un gioiello, un mobile, un appartamento o una polizza vita. E se il destinatario è un’associazione senza scopo di lucro non si pagano tasse di successione

Alessandro Manzoni incluse nel suo testamento il suo servitore. Giuseppe Verdi, in mancanza di eredi diretti, lasciò il suo patrimonio ad asili e istituti per ciechi, sordomuti e rachitici. Non è una novità, quella di dare in beneficenza una parte dei propri beni dopo la morte. Ma oggi più che mai può diventare una fonte di finanziamento importante per le onlus. Le “ultime volontà” possono consentire per esempio di costruire un pozzo in un Paese povero, contribuire all’acquisto di libri di testo o vaccini, favorire la ricerca su leucemia e cancro, aiutare persone con disabilità.
Negli ultimi dieci anni le donazioni testamentarie a favore di organizzazioni no profit sono aumentate del 15%, secondo i dati raccolti dal comitato in collaborazione con il Consiglio nazionale del Notariato. Da un sondaggio condotto su un campione di 700 notai, le più propense a fare donazioni post mortem risultano le donne, oltre il 60% del totale. Nella metà dei casi il valore è sotto i 20mila euro, ma c’è anche un 8,5% di testamenti in cui i lasciti superano i 100mila euro. L’iniziativa Testamento solidale passa innanzitutto attraverso la sensibilizzazione sull’utilizzo del testamento: in Italia lo fa solo l’8% della popolazione. Una percentuale di molto inferiore, per esempio, al 48% della Gran Bretagna, dove la mancanza dell’obbligo di lasciare una quota di legittima a coniuge e figli, presente invece da noi, spinge a mettere nero su bianco la propria volontà ultima.
Come fare il testamento? – Per lasciare parte dei propri beni in beneficenza bisogna indicare tale volontà nel testamento. In Italia ci sono tre modi per farlo. Il testamento olografo è un documento scritto obbligatoriamente a mano con tanto di data e firma, che può essere conservato in casa da chi lo scrive oppure affidato a una persona di fiducia o a un notaio. Il testamento pubblico invece viene redatto dal notaio che mette per iscritto le volontà in presenza di due testimoni: l’interessato viene così aiutato a dare disposizioni che siano a norma di legge. Infine il testamento segreto, utilizzato di rado, è caratterizzato dall’assoluta riservatezza sul contenuto: viene consegnato in una busta chiusa già sigillata o da sigillare al notaio, sempre davanti a due testimoni e i dettagli non saranno noti a nessuno fino a morte sopravvenuta. Qualsiasi sia il tipo di testamento che si è scelto di fare, le disposizioni testamentarie possono essere revocate, modificate o aggiornate più volte e fino all’ultimo momento di vita. È sufficiente redigere un nuovo testamento nel quale si usa una formula del tipo: “Revoco ogni mia precedente disposizione testamentaria”.

Quanto si può lasciare a una onlus? – Non tutti i beni possono essere lasciati in beneficenza dopa la morte, visto che le norme italiane tutelano gli eredi legittimari, ovvero i parenti più stretti: il coniuge, i figli e in loro mancanza i genitori. A loro è riservata per legge una quota, detta legittima, che varia a seconda della composizione familiare. Per esempio in presenza di un coniuge e di un solo figlio a entrambi deve andare almeno un terzo del patrimonio totale, nel cui computo si considerano anche eventuali donazioni effettuate in vita. Se non ci sono figli, al coniuge deve andare almeno la metà dei beni. Il resto costituisce la quota disponibile, che non è mai inferiore a un quarto del patrimonio e che può essere lasciata, in tutto o in parte, ad altri soggetti che non siano gli eredi legittimari.

Che cosa si può donare con un lascito solidale? – Inserire nel proprio testamento un lascito solidale non è per forza una cosa da ricchi: “Anche una somma di denaro relativamente piccola, come 5mila euro, è molto utile”, spiega Rossano Bartoli, portavoce del comitato Testamento Solidale e segretario generale della Lega del Filo d’Oro. Qualsiasi donazione è ben accetta, al di là del suo valore. E della sua tipologia: si possono lasciare somme di denaro, azioni, titoli d’investimento oppure altri beni mobili come un’opera d’arte, un gioiello o un mobile di valore, ma anche beni immobili come un appartamento. Oppure si può indicare una onlus come beneficiaria di una polizza vita. Ma quanto finisce nelle casse degli enti no profit? “Il dato varia da organizzazione a organizzazione. E di anno in anno”, risponde Bartoli. “La Lega del Filo d’Oro per esempio riceve ogni anno tra i 40 e i 50 lasciti, per un valore complessivo che varia da un minimo di 3 a un massimo di 10 milioni di euro”.

Si possono imporre vincoli sull’utilizzo del bene? – Il lascito che si fa a una onlus può essere vincolato a un particolare utilizzo del bene. Una pratica che a volte rischia però di mettere in difficoltà l’organizzazione: “Può capitare che venga lasciato un alloggio con l’obbligo di utilizzarlo per esempio come sede di una comunità. Tali richieste non sempre sono realizzabili e in tal caso la onlus può decidere di rinunciare a quanto le è stato assegnato”, spiega Bartoli. Per evitare questo rischio il consiglio è di “contattare prima l’associazione in modo da valutare insieme quali condizioni sull’utilizzo futuro del lascito possano essere rispettate e quali no”.

Che garanzie ha chi fa testamento? – Lasciare un bene a una onlus. Ma che garanzie ci sono sul rispetto della propria volontà? “Una cautela da avere è quella di nominare un esecutore testamentario, ovvero una persona che controlla l’esatta esecuzione delle disposizioni contenute nel testamento e che in caso contrario si rivolge al giudice”, risponde Albino Farina, responsabile dei rapporti con il Terzo settore per il Consiglio nazionale del Notariato. “Di solito questo compito viene affidato a un erede, a un parente o a una persona di fiducia”. Una funzione di controllo la possono avere anche i parenti, che hanno tutto l’interesse a verificare nel tempo il rispetto della volontà di chi ha fatto testamento, altrimenti possono impugnarlo e ricevere loro stessi i beni destinati all’ente no profit. In mancanza di un esecutore testamentario o di una persona portatrice di un interesse diretto, però, è difficile che ci sia un reale controllo. “In tal caso – commenta Bartoli – a garanzia del rispetto di quanto disposto nel testamento c’è solo la serietà dell’ente che ha ricevuto il lascito”.

E le tasse? – Sui lasciti a enti no profit o a enti pubblici non si paga alcuna imposta di successione. Una condizione privilegiata, visto che coniuge e figli hanno una franchigia di un milione di euro ciascuno, oltre la quale versano un’imposta del 4 per cento. Condizioni che diventano più sfavorevoli man mano che la parentela diventa meno stretta: per fratelli e sorelle, per esempio, la franchigia scende a 100mila euro, mentre l’aliquota sale al 6. L’esenzione dalle imposte di successione per il momento vale solo per le organizzazioni no profit italiane e per quelle dei Paesi dell’Ue che concedono esenzioni analoghe alle onlus del nostro Paese. La Commissione europea ritiene però che tale esenzione vada estesa alle organizzazioni no profit di tutti gli Stati membri. Per questo di recente ha chiesto all’Italia di modificare la propria normativa.

La carta del futuro?Sarà prodotta dalla paglia di grano.

Addio cellulosa, la carta usa e getta (come i fazzolettini) presto potrebbe diventare sostenibile all’origine. Come? Sostutiendo l’uso della cellulosa con scarti di materie agricole, ricavate dalla paglia di grano. Stando a quanto si legge su Il Sole 24 Ore, è proprio questa l’intenzione di Essity, azienda nota come Sca, che produce alcuni brand famosi come Tena, Nuvenia e Tempo. Al momento per la produzione di carta già vengono utilizzati tutolo di mais, pastazzo di grumi e scarti del caffè: il tutto grazie alla collaborazione di Essity Italia con la cartiera Favini. La vera novità, quindi, sono gli scarti del grano: la produzione sarà avviata in Germania, a Mannheim, dov’è localizzato uno stabilimento apposito.
Nel 2020 al via la produzione a livello industriale?
Il progetto, per ora, è in fase di test ma entro il 2020, comunque, dovrebbe essere avvita la produzione a livello industriale. Una valida alternativa ,per rispettare gli alberi e preservarli, una piccola cosa ,ma tante piccole cose insieme possono fare un cambiamento , ora che il polmone modiale “l’Amazzoina”è minacciata dal presidente brasiliano Bolsonaro ,per favorire proprietari terrieri e grandi allevatori.Adesso attendiamo la canapa , perchè è tenuta sotto stretta osservazione da Essity. Tante piccole gocce insieme possono fare un temporale.

“Stella polare”,centro anti-violenza dove si riscrive anche la favola di Biancaneve.

A Villa Latina, esiste da qualche anno :“Stella polare”, punto di riferimento per l’intero progetto: «Il compito del centro sta proprio nel guidare ed accompagnare le donne attraverso un percorso che permetta loro di reinserirsi nella vita quotidiana» spiega Elisa .
Il centro antiviolenza ha ospitato soltanto nel primo anno 12 donne, il numero è raddoppiato nel 2017, quando le donne che hanno richiesto di essere accolte sono state ben 24, abbastanza se si pensa che stiamo parlando di un piccolo paese. Nello stesso anno, ha ricevuto ben 67 richieste d’aiuto. Il centro inoltre collabora sia con le forze dell’ordine, sia con l’ospedale SS. Trinità di Sora. Grazie all’infermiera Nadia Gabriele è stato attivato un “percorso rosa” attraverso il quale si dà assistenza e supporto a chi ne abbia bisogno. Le donne che si recano in ospedale a seguito di violenze, più di ottocento lo scorso anno, vengono informate sull’esistenza dei centri in grado di aiutarle e sostenerle. La maggior parte di loro non ha una stabilità economica e proprio per questo continuano a vivere insieme ai propri aguzzini, si sentono sole e non sanno dove andare. Il centro antiviolenza le ospita e garantisce loro un’indipendenza economica reinserendole nel mondo del lavoro. Per esempio attraverso il “Laboratorio eco solidale”, un progetto che ha visto l’inserimento di 15 donne all’interno di un ambiente lavorativo e che si è svolto all’interno dell’isola ecologica di Sora grazie al finanziamento dell’Unione europea. Ha permesso alle donne di riscoprire le proprie capacità, di sentirsi attive ed utili. Hanno imparato inoltre a creare oggetti riciclando il materiale che veniva abbandonato nell’isola ecologica.

«Grazie alla responsabile del laboratorio, Alessia Garonfalo, siamo riusciti a collaborare anche con le attività commerciali del territorio che spesso ci contattano per creare allestimenti eco-solidali per matrimoni e non solo – riprende la Viscogliosi – Questa attività ha riscosso molto successo e nonostante il finanziamento sia terminato stiamo andando avanti. Ma ovviamente per avviare queste esperienze abbiamo bisogno di risorse». E qui si tocca il tasto dolente, perché la Regione aveva stanziato lo scorso anno circa 185 mila euro con i quali Villa Latina avrebbe potuto creare nuove attività. Peccato però che a causa di un errore burocratico da parte degli operatori comunali la domanda non è stata perfezionata e a vincere il bando è stato l’unico altro comune in gara, quello di Alatri. «Dopo aver letto l’esito della graduatoria – commenta la direttrice del centro – sono rimasta sconvolta, abbiamo perso una grande opportunità per una distrazione avvenuta all’interno degli enti comunali. La nostra sede poi è confinante con il Comune, avrebbero potuto affacciarsi dalla finestra e chiederci la documentazione aggiuntiva richiesta dalla Regione. Ma non ci lasceremo scoraggiare e proseguiremo con i nostri progetti, questo centro sta dando tanto a donne e bambini, non ci fermeremo».

Quella che il centro sta offrendo a Villa Latina è una grande lezione di vita, gli abitanti vengono resi partecipi di queste nuove iniziative e nelle scuole aumentano sempre più i progetti finalizzati a sensibilizzare sull’argomento anche dei più piccoli. La casa rifugio collabora, infatti, anche con gli asili attraverso la rivisitazione delle favole in chiave di genere. «Riscriviamo le favole affinché i più piccoli capiscano il valore e la forza delle donne – continua Elisa Viscogliosi – Per esempio abbiamo rivisitato la favola di ‘’Biancaneve e i sette nani’’ in cui la protagonista però non rimane in casa a rassettare, spolverale e a svolgere le faccende domestiche ma va anche lei con i nani a lavorare, inoltre non avrà bisogno del bacio del principe per svegliarsi e salvarsi ma ci riuscirà da sola. È una donna, insomma, prima di essere una buona moglie, una buona madre, una brava casalinga. Speriamo così di rompere gli squilibri di genere e di far nascere un nuovo senso di solidarietà e collaborazione nella comunità locale».

Progetto:”La vita Sotto il turbante”le donne lavorano per le donne.

turbanti per donne in chemioterapia fatti dalle detenute di San Vittore

Il progetto nato dall’alleanza tra tre associazioni.
Usciranno dalla sartoria del carcere di San Vittore e saranno a disposizione delle donne in cura all’Istituto nazionale per i tumori, nella stessa Milano: sono turbanti colorati, trasformati in accessori alla moda e nel simbolo di un’alleanza fra detenute e malate.

Il progetto si chiama “La vita Sotto il turbante” ed è nato dalla collaborazione tra l’associazione Go5-Per mano con le donne, una Onlus dedicata alle pazienti del reparto di Ginecologia Oncologica dell’Istituto dei Tumori di Milano, e la Cooperativa Alice per Sartoria SanVittore.

L’idea è venuta alle volontarie di Go5 e si è poi concretizzata fino ad ottenere, grazie all’attenzione dell’assessorato alle Politiche Sociali, il patrocinio del Comune di Milano e della Camera Penale di Milano. Circa un anno fa la stilista di Sartoria SanVittore, Rosita Onofri, ha studiato un modello semplice e innovativo, costruito con tessuti naturali e abbinati a stoffe colorate provenienti da India, Marocco, Mauritania.

Dopo essere stati testati dalle stesse pazienti che hanno suggerito qualche ritocco, nei mesi scorsi ha preso il via la produzione dei turbanti “made in carcere”: le detenute hanno confezionato capi che saranno disponibili dietro una donazione con lo scopo di raccogliere fondi da destinare alla ricerca scientifica per la diagnosi precoce del tumore ovarico.

Allo stesso tempo, commissionando i turbanti a Sartoria SanVittore si potrà offrire lavoro a coloro che, pur lontane da casa, con il loro stipendio cercano di sostenere il bilancio familiare. L’iniziativa, inoltre, propone un messaggio di solidarietà tra donne che soffrono, seppure per motivi diversi. Il turbante infatti, può portare le donne che si trovano in carcere fuori dalla cella, consentendo loro di instaurare un dialogo, sebbene ideale, con la città e e anche tra le carcerate e le pazienti.

“Il cancro è uno dei tabù della nostra società – spiega in una nota Francesco Raspagliesi, direttore dell’Unità di Oncologia Ginecologica della Fondazione Irccs Istituto Nazionale dei Tumori di Milano – e rappresenta simbolicamente l’aspetto oscuro della vita. Nonostante i fantastici progressi della terapia, sono ancora gli insuccessi che colpiscono maggiormente l’attenzione e ne definiscono l’immagine pubblica”.